Quando il futuro evoca incubi che non svaniscono al mattino
- Alvise Bortolato

- Feb 24, 2022
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La notte scorsa ho fatto due sogni. O meglio, due incubi. Nel primo uscivo a fumare sul terrazzo, immerso nel silenzio della notte campestre. D’un tratto, il cielo si rischiarava di una luce fredda e iniziavano a cadere bombe che in breve tempo squarciavano l’oscurità in un susseguirsi di sibili e boati. Le case ardevano e crollavano tra le urla delle persone.
Nel secondo sogno ero a Londra ad una festa in un parco – centinaia di persone spensierate sparse su teli e asciugamani gettati sul prato, in una tiepida sera estiva – finchè, senza che ve ne fosse il presentimento, un plotone di soldati circondava il parco e iniziava a catturare chiunque.
Al di là della forza con cui le ansie e le paure della realtà riescono a penetrare l’inconscio e a manifestarsi nel mondo onirico, il punto è che ormai non basta svegliarsi per trovare sollievo, per liberarsene. Non sono incubi che svaniscono assieme alle notti.
Stamattina, il mondo fa ancora i conti con una pandemia iniziata oltre due anni fa, con paesi devastati da guerre – di cui una minaccia di innescare qualcosa di drammaticamente più ampio e sconvolgente – di un crescente disagio che permea la società, in particolar modo l’Occidente che ha da tempo imboccato il viale della decadenza.
Farsi un giro su qualsiasi media o sito d’informazione è un tuffo di pancia nell’assurdo dolore del mondo. E allora, prontamente, proliferano le spiegazioni semplici e preconfezionate, nette distinzioni tra bene e male o buoni e cattivi, pericolose rassicurazioni circa la legittimità di ciò che si odia o di quanto sia facile fare il bene, che basta un click per donare qualche spiccio a chissà chi e sentirsi in pace con la coscienza. Qualcosa a cui aggrapparsi, un appiglio solido e inscalfibile, meglio se ampiamente condiviso e ancora meglio se coerente con la narrativa del momento. La consapevolezza di essere seduti dalla parte giusta della storia, quella dei vincenti.
Spesso è una corsa col paraocchi verso le varie forme con cui si manifesta l’unico dio rimasto nel pantheon: il successo economico, la fama, il possesso materiale. Basta sia misurabile e tangibile, se luccica ancora meglio.
Ma se si alza lo sguardo per un attimo – soprattutto se si ha meno di 50 anni – di futuro non c’è traccia. O meglio, nulla che appaia particolarmente desiderabile e, quel che è peggio, nulla che scardini l’idea che il meglio sia già venuto. Mi torna in mente quando, parlando con un’ultra-ottantenne cresciuta in tempo di guerra prima e di Occupazione poi, mi disse che la sua generazione rispetto alla nostra non aveva nulla, ma che non farebbe a cambio perché loro “vedevano il futuro”.
Di questi tempi mi pare che qualsiasi scenario e prospettiva siano sovrastati dai cambiamenti climatici, pandemia inclusa. Qui nella Pianura Padana - ma in generale nel Nord Italia - non piove decentemente da mesi e, senza un miracolo, a breve dovremo fronteggiare la siccità. A Londra, non più tardi di 15 giorni fa, una tempesta tropicale si è abbattuta sulla città. Qualche strascico ha raggiunto Milano, con venti tra i 100 e i 150 km/h.
La complessità del Pianeta cresce ad un ritmo vertiginoso pur senza il nostro contributo, eppure, in quei momenti sempre più rari in cui la crisi ecologica concede un po’ di tregua apparente – facendosi meno manifesta –, è la follia della nostra specie ad arrivare per dare man forte.
Il risultato è che come individui soffriamo nel sentirci impotenti e vulnerabili, incapaci di determinare (e di ammettere) da che parte del confine tra spettatori e vittime ci troviamo. Già qualche vacua forma di piacere ci sembra una conquista. Di spingerci più in là a caccia di una prospettiva da edificare ed inseguire non ci pare proprio il momento. Ci mancano le forze e tutto sembra vano. A che serve riempire un fondo pensione mentre si contempla il collasso della civiltà?
“se il mondo finisce non me ne frega, / la mia psiche è una fortezza ma spero che ancora regga” cantava Gue, delineando forse l’atteggiamento più funzionale sospeso tra nichilismo e speranze individualiste.
Non so in quanti perseguano la stessa strategia, fatto sta che faccio sempre più fatica a trovare persone in grado di coricarsi felici la sera – o quanto meno serene – e al contempo sobrie e lucide, senza il conforto di alcool e droghe o di altre forme di intrattenimento non meno intossicanti.
Ora, che in mezzo a tutte queste considerazioni io sia consapevole di essere incredibilmente fortunato, non toglie che l’essere in una situazione del genere riguardi tutti, affligga tutti - a livelli differenti, creando ulteriori diseguaglianze.
Poco fa, mentre ero in giardino, oltre la siepe che dà sulla strada, ho ascoltato una donna parlare della guerra - “Nato”, “Putin”, qualcosa di simile ad aeroporto - spingendo un passeggino. Parlava in una lingua dell’Est che non sono riuscito a riconoscere, forse moldavo. Il tono era grave, ma sembrava più rassegnato che preoccupato. Qualcosa di ineluttabile, qualcosa che non si può aggiustare.
Non so come faremo a stare meglio, tutti. Ma so che nessuno stavolta potrà riuscirci da solo. La cooperazione è la più incisiva caratteristica della nostra specie e se il futuro non c’è, non resta che rimboccarsi le maniche e crearlo. Assieme agli altri, non sugli altri. E lottare con tutte le proprie forze per restare lucidi in mezzo a tutta questa sconfortante sofferenza. Perché a non capirci un cazzo ci si può anche illudere di essere spettatori, ma si è vittime.


