Dispacci dall’Indocina - #13 Tropici Khmer
- Alvise Bortolato
- Nov 22
- 8 min read
Azzurro eterno è il firmamento, e la terra
è destinata a lungo a stare immobile, e a rifiorire in primavera.
Ma tu, uomo, ancora vivrai?
Neppure cent'anni ti puoi trastullare
con tutte le putride vanità di questa terra!
Il canto della terra – Gustav Mahler
“La vita – scrive Ingold – non è un tiro a segno. Si tratta invece di procedere a tentoni, nello scarto fra mezzi e fini: qui si ritrovano tutte le possibilità. In mezzo a tutto questo non vediamo un futuro che si dirige verso di noi ma che si estende fino a dove arriva lo sguardo. Si muove insieme a noi: non ci arriveremo mai; eppure finché riusciamo ad andare avanti, c’è speranza”.
Tim Ingold: il futuro alle spalle - Gianfranco Marrone

3 febbraio 2023 | Phnom Penh
La dogana di Khaorm Samnor è ospitata nel verde di un giardino sulla sponda del Mekong, con un Wrangler della polizia tirato a lucido semi-nascosto dalla vegetazione. Nel suo bugigattolo dominato dal ronzio dei ventilatori a pale, l’ufficiale di frontiera è generoso coi timbri sul passaporto. Incolla addirittura un foglietto con eleganti scritte in cambogiano e i nostri nomi ricopiati a penna.

I nostri primi passi nel Regno di Cambogia li compiamo qui, giusto il tempo di sbrigare le formalità e tornare a bordo della barca che risale il Mekong diretta a Phnom Penh. Il sole è alto ma l’umidità offusca il cielo, il fiume ampissimo è solcato da rare chiatte e strette barche di pescatori. Di tanto in tanto qualche isolotto inframmezza la distesa d’acqua. Sonnecchiamo cullati dalla barca che scivola controcorrente.

Sbarchiamo in centro città che il sole è allo zenith e la canicola picchia duro tra i palazzi di cemento. Raggiungiamo boccheggianti un bar, scrocchiamo il wi-fi e cerchiamo un hotel. Ne scegliamo uno lungo il fiume per una trentina di dollari a notte. La valuta, specie in questa parte della città popolata di expat è il dollaro, il che fa lievitare sensibilmente i prezzi.

Tuttavia, per le strade si avverte lo spirito asiatico che contrasta il costante tentativo di occidentalizzazione. Il meraviglioso caos del Sud Est resta invincibile, per fortuna. Phnom Penh alterna palazzi moderni con insegne occidentali alle eleganti architetture dei templi khmer, spesso luccicanti d’oro.

Nel pomeriggio visitiamo il National Museum, la cui bellezza delle opere è quasi offuscata da quella del palazzo che le ospita, con le strutture in legno ornate da decori raffinatissimi e di un rosso che s’accende al calar del giorno. Il cortile interno ospita un giardino geometrico con tanto di vasche d’acqua che riflettono la bellezza dei fregi. La collezione ospitata è comunque notevole.

Fu progettato da George Groslier, pittore e fotografo francese, ed edificato tra il 1915 e il 1920. Lo stile della costruzione è quello di un tempio buddista khmer, reinterpretato attraverso gli occhi di un occidentale e adattato all'uso museale. Ebbe una storia travagliata, finendo abbandonato durante il regime dei khmer rossi – come del resto l’intera città –. Fu ritrovato in rovina nel 1979: il soffitto era marcito e vi si era insediata una colonia di pipistrelli, molti i danneggiamenti e i furti alla collezione.
Eppure, oggi è uno splendore e il sole che cala a occidente ci regala una visione di rara dolcezza, coi pinnacoli lignei che sembrano prender vita simili a volute di fumo rosseggianti nel cielo tropicale.

Gironzoliamo per il centro mentre si fa sera, la città che si riversa nelle strade ora che il caldo allenta la presa. Baracchini ovunque, tuk-tuk, motorini, afa. È da pranzo che mi sento appesantito, come se non avessi digerito. Poche ore dopo, vomito copiosamente prima di crollare a letto sfinito. È la prima forma di malessere fisico in cui incappo nel corso del viaggio.

4 febbraio 2023 | Phnom Penh
Debilitato, non mi resta che rimanere in hotel dormendo a intervalli per quasi tutto il giorno. Alice nel frattempo va a visitare i campi di prigionia dei Khmer.

Usciamo per cena e il lungo fiume è una sfilata di macchine lussuose stranieri che fanno jogging. Anche Phnom Penh è uno strano miscuglio di contraddizioni, con un modo tutto suo di sprigionare bellezza. Passeggiamo lungo il palazzo del re, tra le persone che affollano i baracchini e il caldo umido che si leva dall’asfalto. Mi chiedo come viva un monarca asiatico di questi tempi, cosa scandisca le sue giornate, quale concezione del mondo, quali i suoi vizi, quali le sue piccole forme di felicità. Noi, dal canto nostro, ci concediamo una pizza da Limoncello che si rivela assolutamente soddisfacente.

5, 6 febbraio 2023 | Phnom Penh, Sihanoukville, Koh Rong Sanloem
La sveglia suona che oltre le finestre sta albeggiando. Alle 8:15 siamo comodamente seduti sul van diretto a Sihanoukville. Comodità che viene annullata quando l’autista decide di caricare un passeggero extra, costringendoci a piazzare quattro culi su tre sedili.

Uscendo da Phnom Penh percorriamo ampie strade costeggiate da distese di baracche e bancarelle che man mano si diradano lasciando il campo a un paesaggio rurale e siccitoso fatto di distese di erba ingiallita su cui pascolano scarni bovini. Imbocchiamo l’autostrada semi-deserta percorsa solo da pulmini e grossi SUV. La campagna è arsa e polverosa ma ben tenuta, con le risaie in fase di evaporazione. A un centinaio di chilometri da Sihanoukville i campi lasciano spazio a una vegetazione più disordinata e la pianura a rilievi ricoperti di giungla.
Mi accorgo di come viaggiare mi spinga verso una forma di conservatorismo, di passività nei confronti del mondo. La volontà di imporre una visione si infiacchisce. Lasciare spazio a ciò che non tenta il dominio sul resto, smettere di desiderare sempre di più. Essere custodi della bellezza che si incontra, essere lievi, intangibili. Non fare, contemplare e tutt’al più assecondare. E sono consapevole che tutto ciò è in netta contrapposizione con il modo in cui sto vivendo, sostenuto dai danari guadagnati sguazzando nel sistema capitalistico. Lo stesso sistema che spesso minaccia la bellezza in cui incappo. Armare l’aguzzino e poi tentare di salvare la vittima. Certo che mi contraddico, contengo moltitudini – grazie Mr. Whitman.

Il van ci scarica al porto di Sihanoukville sotto a un sole cocente che fa tremolare i contorni dei capannoni in lamiera. Lasciamo gli zaini in un hangar ingombro di auto dove è stata allestita una sorta di sala d’attesa. Sedie di plastica crepata in file disordinate con qualche cambogiano stravaccato che si concede un riposino dopo aver portato a destinazione i propri passeggeri.
Al termine di un’attesa sudata, saliamo sulla fast boat diretta a Koh Rong e Koh Rong Sanloem. Abbiamo optato per la seconda dopo che ci hanno suggerito di preferirla alla sorella maggiore, più famosa, e per questo ben più deturpata. A Sanloem, ci hanno detto, non c’è nessuna strada, nessuna macchina, nessun edificio più alto di due piani.

A Sanloem l’attracco è su un pontile che scinde un’ampia baia dalla forma perfetta e dalle acque di un’inaspettata cristallinità. Una striscia di sabbia bianca contornata dal verde tropicale, con qualche bungalow che sbuca. Attendiamo che qualcuno dell’alloggio che abbiamo prenotato ci venga a prendere come concordato – non essendoci strade, non è semplice trovare un indirizzo – ma non si palesa nessuno. Inforchiamo gli zaini e ci incamminiamo lungo la battigia.

Dopo una decina di minuti, arriviamo grondanti a destinazione. Ci offrono una birra riparatrice per scusarsi dell’incomprensione. A me pare che, semplicemente, non avessero alcuna voglia di raggiungere il pontile per portare i bagagli al posto nostro. Ci assegnano un bungalow tra le palme del giardino, a dieci metri dalla spiaggia. Abbandoniamo frettolosamente zaini e vestiti e ci immergiamo nell’acqua calda della baia. Al crepuscolo un’enorme luna piena sorge a rischiarare il cielo. Quasi non crediamo a questa sorprendente perla tropicale cambogiana.

Ci svegliamo in una stanza invasa di luce, coi riflessi che danzano sul soffitto. Facciamo colazione in silenzio, contemplando il mare cristallino che lambisce pigramente l’arenile candido. Passeggiamo lungo la spiaggia che è al contempo il centro dell’isola, la zona dove si concentra la maggior parte degli edifici. Piccoli locali, qualche “resort” celato dalla vegetazione, ma nulla di invasivo. Un paradiso, per ora, intatto. Rimpiazzo momentaneamente i Persol lasciati a Cebù con un paio di plasticose imitazioni di Rayban per 4 $. Ogni tanto qualche barchetta giunge o se ne va con qualche coppia di turisti. Sdraiamo il telo sulla sabbia farinosa e ci abbandoniamo all’indolenza.
Nel pomeriggio attraversiamo l’isola per raggiungere Lazy Beach, da cui guardare il tramonto. Appena lasciamo la costa scopriamo che stanno spianando l’interno dell’isola per costruire strade, abbattendo la foresta. Ricorda le immagini della deforestazione in Amazzonia, i segni dei cingoli sul fango e frammenti di legno e pietre sparsi ovunque. Piange il cuore a vederlo. Servono strade in paradiso? E per chi? È progresso distruggere qualcosa che non tornerà?

Avvistiamo una scimmia che si aggira tra le rovine della propria casa. Alberi solitari, vecchissimi e possenti, si stagliano separati dal resto della jungla. Forse i tagliaboschi hanno avuto pietà dei più vetusti, o forse li taglieranno non appena sapranno a chi vendere il legname. Per le piogge monsoniche sarà più facile abbatterli, ora che sono isolati dal resto della foresta. Il loro destino – e quello dell’isola – sembra segnato.
Parlando col personale dell’hotel ci confermano, sconfortati, che Koh Rong Sanloem è condannata. Un’azienda privata ha fatto un accordo con la Marina Militare cambogiana che possiede l’isola. Hanno già approvato il progetto per creare un complesso di grattacieli stile Miami, e addirittura scavare un canale per permettere agli yacht di attraccare all’interno dell’isola. Fa venire da piangere.

Mangiamo in spiaggia, col via vai di persone che cammina lungo il litorale rischiarato dalla luna piena che si staglia sulla baia e dalle torce conficcate nella sabbia a segnalare i ristoranti.
A cena compro 20$ d’erba e mi rifilano una decina di grammi, a occhio e croce. Non riesco neanche a finire la prima canna che, dopo mesi di sobrietà, collasso a letto.
7, 8, 9 febbraio 2023 | Koh Rong Sanloem
Svegliarci con la pioggia sul tetto del bungalow intinge l’animo di pigrizia. Il ritmo rallenta fino a far sembrare il tempo immobile, sospeso in questa quiete tropicale.
Continuano le trattative per recuperare i miei Persol lasciati in aeroporto a Cebu. Tramite un gruppo Facebook di espatriati nelle Filippine chiedo a un certo Terje di occuparsi di spedirmeli a Bangkok, dietro compenso.

Giornate di nullafacenza, la vita che scorre lenta e la meraviglia che si rinnova ogni volta che posiamo lo sguardo sul mare placido, le sfumature dell’acqua che si perdono nell’abbraccio dalla baia. Ci trasferiscono in un bungalow vista mare, allo stesso prezzo. Terje intasca una parte dei soldi che gli ho promesso e sparisce nel nulla, lasciando i miei occhiali nel Lost & Found dell’aeroporto di Cebu City. In qualche maniera torneranno.
Eppure, giunge il momento di andarsene e con esso la tristezza. La consapevolezza dolorosa che lo splendore tropicale incontaminato con cui Koh Rong Sanloem ci ha accolti svanirà ben presto. La logica del profitto è pronta a stuprare la bellezza anche in quest’angolo di mondo.
Il ritmo torna ad accelerare, il viaggio riprende vigore e fluidità, la vastità del mondo è un muto richiamo. Ce ne andiamo sulla fastboat delle 16, che saltella sul mare con indifferenza, prima tappa di avvicinamento a Siam Reap. Un’ora e mezza dopo sbarchiamo a Sihanoukville. Saltiamo su un taxi per la stazione, dove fare il check-in per il bus notturno. Ci ritroviamo in una zona periferica, un crocevia stradale fatto di rotonde e viali a più corsie dove circola più o meno di tutto. Inganniamo l’attesa gironzolando lungo lo stradone bordato da negozi, caffè, banchetti di street food. Alle 22 srotolano un tappetino rosso sul marciapiede, le porte del bus si aprono e iniziamo a salire a bordo.
