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Libertinismo ecologico

  • Writer: Alvise Bortolato
    Alvise Bortolato
  • Jan 20, 2021
  • 4 min read



“Consentitemi di essere esplicito sin dall’inizio. Non credo che vi piacerò […] non vi piacerò ora e vi piacerò ancor meno in seguito.”



Inizia così il film The Libertine, con una dichiarazione d’intenti molto chiara da parte di John Wilmot, II Conte di Rochester e libertino inglese vissuto poco più che un trentennio nella seconda metà del ‘600. Cosa c’entra con la sostenibilità, direte voi.

La risposta è che, nell’affrontare questo tema, credo l’atteggiamento corretto sia simile al suo. Un libertinismo (nel senso di atteggiamento filosofico anziché sfrenatezza carnale) restio ad ogni dogma e al politicamente corretto.


Verrebbe da chiedersi perché assumere un simile atteggiamento proprio ora che, dopo molti sforzi e colpevoli ritardi, la gran parte del mondo sembra invocare e proclamare a gran voce la transizione verso una crescente sostenibilità in tutti gli aspetti della vita. La mia risposta è che, in un’epoca sempre più virtuale, il rischio di uno storytelling fuorviante e superficiale è concreto e gli strumenti per difendersi sono scarsi.


Wittgenstein, filosofo del secolo scorso, nel suo Tractatus scrisse: “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Il senso della sua affermazione era che, essendo il linguaggio il codice attraverso cui traduciamo la realtà e ce ne appropriamo, a sua volta, è il linguaggio stesso a strutturare la nostra percezione del mondo.

In soldoni, se conosco soltanto la parola “cane” anziché i nomi delle razze specifiche, per me esisterà solo l’animale “cane” senza alcuna specificità, caratteristica, diversità. Di conseguenza, ignorerò la differenza tra un cane instafamous e un Alaskan Malamute. Vi lascio immaginare le conseguenze se mi trovassi a dover attraversare una landa innevata e disponessi unicamente di una slitta come mezzo di trasporto.

Un linguaggio povero produce la percezione di una realtà povera, un linguaggio violento struttura una realtà che, vista attraverso l’unica lente della violenza, finirà inesorabilmente per esserlo sempre più. Allo stesso modo, affrontare la questione della sostenibilità edulcorandone il linguaggio, occultandone le ombre in nome di un ottimismo da rimpolpare per le masse, scegliere di essere rassicuranti e non sinceri, non fa altro che neutralizzare la portata del cambiamento che si vuole attuare. Le parole possono portare luce dove prima regnavano le tenebre dell’ignoranza, ma possono anche celare attraverso il non detto, ficcando la polvere sotto al tappeto.


Ma, innanzitutto, cosa significa sostenibilità? La sostenibilità è essenzialmente un rapporto. Il termine “sostenibilità” sottende la relazione di un individuo o di una specie nei confronti di ciò con cui si trova a co-esistere. Si è sostenibili all’interno dell’ecosistema a cui si appartiene. Trattandosi di un concetto prettamente antropocentrico, la sostenibilità dovrebbe misurare (almeno negli intenti) il rapporto tra i comportamenti umani e il loro impatto verso il Pianeta, inteso soprattutto come risorsa. Se il mio consumo di risorse è in equilibrio con la loro capacità di rigenerarsi, allora sono sostenibile. Se le risorse che consumo per sopravvivere creano uno sbilanciamento, è solo questione di tempo perché l’intero ecosistema collassi. Per fare un parallelo che forse ci tocca in maniera più immediata basti pensare al nostro corpo. Questo sistema complesso funziona finchè le cellule che compongono i vari organi si riproducono in equilibrio con tutto il resto. Quando un gruppo di cellule inizia a riprodursi indiscriminatamente, perdendo il senso della misura, tutto l’organismo collassa. In una parola: cancro.


La problematica principale della sostenibilità è la superficialità con cui viene affrontata. Nel considerarla come una semplice equazione, tuttavia, si sbaglia. Il mondo è una rete intessuta di relazioni in costante metamorfosi e di rapporti causa-effetto che si dispiegano lungo una catena sterminata e spesso impalpabile come filigrana. Non è facile seguire il filo fino a trovare il bandolo della matassa, soprattutto mentre si fa parte della matassa stessa. Nel nostro antropocentrismo poi, tendiamo a organizzare la natura e la realtà in termini gerarchici anziché simbiotici, eco-sistemici, co-esistenziali. La nostra specie si è arrogata il diritto di considerare l’esistente come qualcosa da dominare e sottomettere, anziché qualcosa con cui armonizzarsi. Da questa visione derivano conseguenze che si sono protratte e aggravate nel corso della storia della nostra specie.


Dagli albori dell’umanità ad oggi le civiltà sono sorte e crollate, in un susseguirsi di accumulo materiale e progresso inteso come forma di controllo sulla natura e annientamento dei competitori per le risorse. Qualche millennio dopo ci troviamo con una società, quella occidentale in primis, fondata sul benessere materiale. A sua volta, il benessere materiale è valutato sulla base delle possibilità quantitative di consumo e qualitative di possesso. Questa forma mentis produce dosi di individualismo e avidità che, armate dal progresso tecnologico, hanno prodotto quella Grande Cecità di cui parla Amitav Gosh. In sostanza, l’incapacità di accorgersi che il nostro approccio insostenibile alla Natura non riguarda soltanto la triste perdita di ecosistemi, ma va a minare le condizioni stesse che permettono la nostra vita sul Pianeta.


la consapevolezza che al Pianeta di noi frega poco e nulla, insignificanti per la sua storia come tutte le altre forme di vita che si sono avvicendate sulla sua superficie. Il Pianeta andrà avanti a prescindere da noi, che al massimo abbiamo il potere di trascinare nel baratro con noi qualche ecosistema. Il Pianeta tira avanti finchè il sole non se lo mangerà, e tutta questa bellezza che noi vediamo e sentiamo di voler proteggere e preservare non è altro che una delle infinite configurazioni che si sono avvicendate nella storia della Terra che, per inciso, è costellata di estinzioni e disastri naturali d’ogni genere.

Ecco allora che, di fronte a cambiamenti radicali e indipendenti da noi ma che affliggono le nostre condizioni di vita qui, abbiamo due scelte: contribuire ad accelerare il cambiamento infischiandocene di ciò a cui conduce, oppure trovare un modo di adattarci allo scenario mutato. Ogni specie, di fronte da un cambiamento radicale, mette in atto quelle che vengono definite strategie adattive profonde. Oppure ficca la testa sotto la sabbia e si estingue.


Ecco perché credo che nei confronti della sostenibilità e del linguaggio con cui la si affronta,

l’atteggiamento di rassicurante semplificazione sia pericolosissimo. Ecco perché qui, in questo spazio, cercherò di affrontare la complessità per sfuggire alla paralisi di pensiero che genera e che sta generando.

Sarò esplicito. E non ho alcuna intenzione di piacervi.



Articolo pubblicato il 20 gennaio 2021 su wradliving.com

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