Dispacci dall’Indocina - #9 Inseguendo il sole fino a Siquijor, l’isola mistica
- Alvise Bortolato
- Apr 22, 2024
- 16 min read
Updated: Dec 16, 2024
Hildegard von Bingen, mistica tedesca del XII secolo, nella sua opera Ordo Virtutum fa dire ad uno dei personaggi: “Dio ha creato il mondo e io voglio goderne, senza recargli offesa.” Qui sta un pensiero che oltrepassa in altezza e profondità ogni ecopalliativo consolatorio e coincide con la posizione di Ivan Illich che, in un libro-intervista del 1992 a cura di David Cayley, ci invita a “essere in grado di celebrare il presente e di celebrarlo usandone il meno possibile, perché è bello e non perché è utile a salvare il mondo.”
“Quando il tempo sta per rompersi le mosche sono rabbiose.”
Mia nonna

11, 12, 13 gennaio 2023 | Cebu, Moalboal
La carlinga sferzata dalla pioggia e le distese allagate sono le ultime impressioni di Siargao prima che le nuvole ci inghiottiscano e risputino in quel non luogo che è il cielo al di sopra di esse. Il volo per l’isola di Cebu dura una quarantina di minuti, ma è solo una delle tappe che ci siamo prefissi di coprire oggi. La meta di giornata è Moalboal, sul versante opposto dell’isola a un centinaio di km dall’aeroporto di Lapu-Lapu-Mactan.
Imbottigliati nel traffico di una delle arterie che attraversano la città rifletto su come il moto fisico sia un fluidificante per il pensiero. È come se un corpo che si sposta fosse un terreno più fertile per una mente: incappando in più stimoli il pensiero ne risulta intensificato, tonificato. É come alzare il volume della realtà che ci circonda, e mettersi in religioso ascolto.
Fuori dal finestrino il caos cacofonico e soverchiante di una città di quasi un milione di persone all’ora di punta. Un’orda di mezzi di ogni sorta con la stessa prevedibilità di movimento di uno sciame di moscerini quando viene disperso. Iniziamo a domandarci se riusciremo davvero a raggiungere Moalboal o se resteremo bloccati chissà dove lungo il tragitto. Il bus procede a singhiozzo, e un certo languore prende ad affacciarsi. Compro delle noccioline e delle tortine al cocco da uno degli ambulanti che a ogni fermata salgono a bordo, cantilenano il proprio listino di prodotti, e scendono non appena gli affari sono conclusi.
Scende la notte e ci inerpichiamo lungo una strada tortuosa che attraversa piccoli insediamenti rivelati dalla luce dei fanali. Squarci di edifici e baracche, vegetazione, cani minacciosi a far la guardia, imbocchi di stradine che si perdono chissà dove. Alice s’addormenta cullata dalle curve. All’ennesima sosta in una piazzola fangosa, l’autista mi comunica a gesti che è tempo di mangiare. Ne approfitto anche io, riempiendo qualche piattino di non so cosa dai vassoi tenuti in caldo sul bancone a un prezzo ridicolo.
Arriviamo a destinazione che è quasi mezzanotte. Quel poco di entusiasmo climatico profuso dall’assenza di pioggia durante il tragitto si sgretola a Moalboal. Appena scesi dal bus diluvia con ferocia tropicale. Ci accaparriamo un triciclo ma piove di traverso e la cappotta di tela offre la stessa protezione che una zanzariera all’attacco di un alligatore. Giunti all’ostello tutto ciò che possediamo è di nuovo umido.
La location è affascinante – un caseggiato di un piano con la veranda in bambù abbarbicata sul mare – ma ci assegnano una stanza piccola e fatiscente a cui si accede da una porticina in cucina, tra il frigo e i fornelli. Zanzare e umidità sono protagoniste di una notte in cui non smette di piovere nemmeno per un secondo. Ormai è un mese che non vedo il sole splendere. Inizio a sentire una sorta di marcescenza ammuffente strisciare nel mio umore per colonizzarlo, inzuppare la mia mente appesantendola.
Dopo colazione la pioggia concede un’inattesa tregua che sfruttiamo per fare un po’ di snorkling. Anche in questa luce uggiosa il reef pullula di pesci variopinti. Stelle marine blu elettrico si stagliano sul fondale, tartarughe appostate placide tra le rocce che infastidite dalla nostra presenza si avviano pigramente oltre il limitare della barriera fino a svanire in un blu insondabile. Un serpente marino scivola sinuoso e indifferente sul pelo dell’acqua costringendoci a cambiare traiettoria per evitare la collisione. Mi rammarico per le nuvole che smorzano la luce, immaginandomi la bellezza che s’accenderebbe in una giornata di pieno sole.

Il paesino di Moalboal ha il suo fascino trasandato, e i prezzi sembrano più contenuti rispetto alle tappe precedenti. Un affastellamento di costruzioni, per la gran parte baracche, innervato da stradine strette e costellate di pozzanghere. Le precipitazioni sono meno intense che a Siargao, lasciandoci intravedere qualche speranza di miglioramento. Assaggiamo una varietà di banana che non avevo nemmeno mai visto e rifletto su quanti cibi esistano che ancora non ho ancora assaggiato.
Dopo cena sorseggiamo una birra a uno dei tavolini nel piccolo portico arroccato sul mare. Pioviggina ancora e il suono che domina è la risacca tra gli scogli, lo sciabordio dell’acqua che scivola tra le formazioni coralline. La marea è scesa e nell’oscurità scorgo i fasci di luce delle torce dei pescatori che perlustrano le acque basse del reef in cerca di prede. Non il lavoro più confortevole che riesca a immaginare.
La letteratura altresì contempla la molteplicità e – scrive Italo Calvino nel 1980 dialogando con Daniele Del Giudice – immagina “un sistema di moltiplicazione dei possibili per esorcizzare la tragicità dell’unicità. Il fatto che la vita è una, che ogni avvenimento è uno, il che comporta la perdita di miliardi di altri avvenimenti, perduti per sempre. Narratore è colui che vuole sottrarsi a questo destino”
L’incipit della nostra ultima giornata sull’isola è una compilation di pop coreano che risuona oltre la porta della stanza. Attendo trepidante l’uscita degli ultimi romanzi di Cormac McCarthy e ho voglia di scrivere come non ne avevo da un po’. Qualche ora dopo, lasciando l’ostello, ci prestiamo alla foto di rito col proprietario coreano – il che spiega la filodiffusione mattutina – che è una versione asiatica di Johnny Depp.
Ci appostiamo fuori dal 7-Eleven in attesa di un bus che faccia al caso nostro. Chiediamo ai cassieri e agli avventori. Ogni mezz’ora circa, ci viene risposto. Mentre preleviamo ne passa uno, così colgo l’occasione per recarmi all’ufficio postale e spedire una lettera a nonna. Tempo di imbucarla e saliamo al volo sul successivo che ci porterà fino a Bato. Inutile dire che siamo gli unici non filippini a bordo e una comitiva di giovani studentesse ridacchia al nostro indirizzo gettando sguardi curiosi e traboccanti di imbarazzo. Mi crogiolo nella piacevole sensazione di essere esotico, qualcosa in grado di generare una sorta di stupore, un’imprevedibilità, qualcosa di inatteso.

A una fermata, tra un gruppo di studenti in uniforme bianca, scorgo un ragazzino seduto sul motorino che indossa la gonna e i calzini alti. Ho la sensazione che siano molto meno discriminatori che da noi, dove sarebbe occasione per bullismo e scandalo da giornaletto di provincia.
Forse, a differenza nostra, sono consapevoli che i problemi su cui investire tempo e energie siano altri. Un filippino mi ha detto che i loro costumi sono il risultato di 300 anni in convento – ovvero la dominazione spagnola ultracattolica - e 60 anni a Hollywood – nel capitalistico processo di colonizzazione che, nonostante l’indipendenza del 1946, prosegue ancora oggi a suon di fast-food e americanizzazione -. Un particolare impasto culturale non scevro di contraddizioni. Le Filippine sono l’unico paese al mondo in cui il porno è consumato più dalle donne che dagli uomini. Malattie e disturbi legati a una dieta malsana basata su carne fritta e zuccheri raffinati sono evidenti nei corpi delle persone e in una spaesante scarsità di anziani.
Resta il fatto che dobbiamo raggiungere il porto di Lilon, da cui alle 2 del mattino partirà il ferry boat per Siquijor, e nel frattempo il nostro bus si ferma a ogni minzione canina fino a Bato. Ci scaricano in una stazione polverosa senza tanti complimenti. Riusciamo a trovare un altro bus che prosegue e ci accordiamo con l’autista perché ci scarichi all’imbocco della strada che scende al porto. Procediamo a piedi, nel buio squarciato da fanali sporadici di mezzi di vario tipo, cani che emergono dai margini della strada per poi svanire diretti chissà dove.
Arrivati al porto inizia una lunga attesa. In primis, per i biglietti, dato che non si possono acquistare prima delle 23 per motivi che rimangono insondabili. La sala d’attesa non è altro che una manciata di panchine di plastica e un bagno maleodorante nel retro della biglietteria. Ci accampiamo come gli altri, ognuno con i propri averi impacchettati e inscatolati alla ben e meglio. La quiete soporifera della lettura si interrompe quando Alice scorge un grosso ragno cacciatore che passeggia a un metro da lei. In effetti, un ragno grande quando una mano suscita inevitabilmente qualche preoccupazione nella mia aracnofobica compagna. Io sono soprattutto preoccupato che qualcuno spiattelli questo sofisticato capolavoro naturale su otto zampe senza tanti complimenti. Mi accuccio gli soffio contro per qualche secondo. Se ne va infastidito sparendo nell’erba in pochi secondi. Mi chiedo se l’alito post-sigaretta abbia avuto il suo peso.

Il centro nevralgico del porto sono le tre eatery – una sorta di corrispettivo delle nostre trattorie – in cui la gente va e viene più che altro per ingannare l’attesa standosene seduta a ingurgitare cibo e bibite gassate. Scegliamo quella meno affollata e ceniamo con del brodo, riso e delle strane alghe che Alice aveva inizialmente scambiato per noodles. Poco dopo aver finito ci fanno capire che stanno chiudendo, e torniamo nella zona d’attesa. Alice si accampa su una candida panchina di plastica con i bagagli e si addormenta, nonostante a mezzo metro da lei ci sia un paffuto filippino ossigenato che russa sereno.
Mi immergo nella lettura di “Nella Polvere” di Lawrence Osbourne, romanzo ambientato in Marocco, edito da Adelphi come quasi tutte le sue opere tradotte in Italia. Nella vita viaggia e scrive, e le sue opere sono ambientate nei luoghi esotici in cui ha vissuto, soprattutto nel sud est asiatico. Per stile di vita e qualità letteraria mi sembra un tipo invidiabile, quasi che ci metterei la firma a occhi chiusi. Vende libri pur essendo ancora vivo e passa il tempo in giro per il mondo. Ce l’ha fatta, senza dubbio. Incarna in maniera compiuta ciò che più ha influenzato la mia esistenza, eppure mi chiedo se sia tutto oro quel che luccica e quanto le possibilità di essere felici abbiano a che fare col destino che si sceglie, o si sente, di perseguire.
Compro una lattina di Coca a 50 pesos e la sensazione che sia un prezzo a me riservato. Mentre la sorseggio osservo la cassa per capire quanto la paghi un filippino e, in effetti, il prezzo era in esclusiva per me. Poco male, il mio senso di colpa occidentale mi rammenta che gran parte del mondo ha sofferto – e continua a farlo – per il benessere del mio continente.
I cani cercano avanzi di cibo e si rincorrono al centro della strada in brevi schermaglie di latrati e ringhi. Attracca una nave dal cui ventre fuoriesce una quantità inverosimile di mezzi di trasporto e persone, una lunga colata chiassosa che sparge fumi di scarico e cacofonia motoristica. Colgo qualche bagliore di stella fare capolino a intermittenza nel cielo offuscato e mi sembra già qualcosa, visti i precedenti.
Verso l’una iniziano a imbarcarci e nella sala passeggeri è una ressa. Ognuno cerca modi per coricarsi: chi si è portato le amache, chi le brandine o materassini srotolabili, altri siedono su sgabelli poggiando la testa contro torri di scatoloni, altri dormono direttamente sul bancone del bar che è chiuso. Non ci sentiamo da meno: Alice usa gli zaini per creare un giaciglio, io sdraio il telo sul ballatoio esterno largo circa un metro che segue il perimetro della nave. L’acciaio del pavimento è tiepido e mi corico guardando la volta oscura, oltre il parapetto lo sciabordio delle onde e il vento carico di salsedine che mi rinfresca e indurisce i vestiti. Ogni tanto qualcuno mi scavalca ma riesco a dormire per qualche ora.
14, 15 gennaio 2023 | Siquijor
Poco prima delle cinque attracchiamo a Siquijor, sotto un cielo con poche nuvole avvolto dalla luce tenue che preannuncia l’alba. Al porto noleggiamo un motorino che, carico dei nostri zaini, soffre terribilmente nei tratti in salita mentre percorriamo la trentina di km di costa che ci separano dal luogo che ci ospiterà nei prossimi giorni. Una sosta in un panificio per una sorta di colazione a base di caffè in polvere e qualche dolcetto prima di proseguire sotto un cielo via via più luminoso. Qualche nuvola si stria di viola e poi d’arancio, ma il clima sembra migliorare di giorno in giorno, o forse è un’idea a cui vogliamo aggrapparci. Mentre procediamo carichi come muli, la sensazione di essere vivo è strabordante. Mi chiedo se davvero quest’isola, con la sua reputazione di luogo magico per via degli sciamani che nei suoi recessi praticano medicina tradizionale e offrono pozioni d’amore, non abbia un’energia percepibile al punto da risultare contagiosa.
Quando i colonizzatori spagnoli quando sbarcarono a Siquijor, le foreste erano illuminate da milioni di luci, opera naturale di milioni di lucciole. L’isola pareva ardere nell’oscurità della notte. Da qui, appunto, il soprannome Isla del Fuego.
Per ingannare il tempo in attesa del check-in facciamo una sosta ad ammirare il centenario (si ritiene abbia almeno 400 anni) Balete, un albero della famiglia dei ficus. Le leggende vogliono che l’albero, sotto cui sgorga una sorgente, abbia misteriosi poteri mistici e che di notte ospiti spiriti. Nonostante secoli di cristianesimo imposto dagli spagnoli, varie forme di misticismo animista sopravvivono ancora nelle Filippine. Il rullo compressore monoteista, fortunatamente, non ha spianato l’intero globo. È anche grazie alla sua nomea di isola della magia, spesso con sfumature inquietanti, che Siquijor è rimasta una meta di nicchia.

Arriviamo a destinazione dopo aver abbandonato le strade asfaltate per addentrarci lungo uno dei promontori più meridionali dell’isola. Ci accoglie Andy, un sessantacinquenne svizzero che, lasciata Zurigo e una carriera di successo nell’industria pubblicitaria, da 15 anni realizza il proprio Eden personale. Su questo pezzo di terra vulcanica a picco sulla scogliera ha edificato una dimora spaziosa e tondeggiante, con un’ampia terrazza da cui lasciar spaziare lo sguardo sulla distesa d’acqua chiusa in lontananza dall’isola di Mindanao. Nessuna traccia umana nel campo visivo.
Nel giardino ben curato e colmo di specie tropicali ha costruito una depandance tonda in pietra e legno, ben arredata e funzionale. Sarà la nostra casa per i prossimi giorni. Il gabinetto è più in basso, lungo scalini scavati nella roccia scura, completamente aperto e sovrastato da una tenda a protezione dalla pioggia. Scendendo ancora c’è la cucina per gli ospiti, incassata in una grotta.
Ma è giunti al limitare della scogliera che Andy ha sfogato la sua indole giocosa, unendola a un certo pragmatismo funzionale elvetico. Difettando di un accesso diretto al mare, per superare i 6/7 metri che separano la fine del giardino all’acqua, il padrone di casa ha creato tre diversi modi per andare a farsi un bagno. Il primo, per i più coraggiosi, è un trampolino in assi di legno sbiancate dal sole. Il secondo, una scala malferma di bambù aggrappata alla roccia. La terza, quella di cui è più giustamente orgoglioso, è un’amaca collegata a una carrucola azionabile con telecomando. Basta sedersi e calarsi comodamente fino al mare.
Dopo avercele mostrate, saliamo in casa dove sua moglie Juvy ci offre un banana shake (la frutta è del giardino) e una pizza con formaggio e carne fatta da lei. Sono ospiti meravigliosi che trasmettono un senso di pace. Recuperiamo qualche ora di sonno e usciamo per procurarci del cibo.
Qualche tempo fa, passeggiando per Kuala Lumpur, mi innamorai della forma di una palma che scorsi lungo un viale. Le foglie aperte a ventaglio, regolari, esotiche. Anche il giardino ne ospita una, così chiedo a Andy se ne conosca il nome. Palma del viaggiatore, mi risponde.
Erroneamente assimilata alle palme, la Ravenala madagascariensis è una pianta erbacea ad alto fusto (come il banano), endemica del Madagascar, appartenente alla famiglia delle Strelizie. Deve il suo nome comune al fatto che le sue caratteristiche foglie a ventaglio, la cui base a forma di coppa raccoglie l'acqua piovana, sono utilizzate dai viaggiatori per dissetarsi. Inizia a frullarmi in testa l’idea di tatuarmela.
L’isola vive un tempo diverso e le abitazioni sono soprattutto baracche che sbucano dalla vegetazione selvaggia. Lungo la strada macellano un maiale. Sostando fuori da un baracchino che vende frutta e verdura due anziani a passeggio ci fanno notare che abbiamo la ruota posteriore sgonfia. Ci indicano la casa di un meccanico che può aiutarci poco più in là. Mezz’ora dopo il problema è risolto e il meccanico ci chiede una cifra irrisoria. Insistiamo per riuscire a fargli accettare una donazione più generosa.
Ad accoglierci sull’uscio di casa c’è un cesto con cocco, banane e papaya colte nel giardino del vicino. La sera cuciniamo nella grotta, con la netta sensazione di essere in una delle svariate forme in cui l’ideale di Eden si manifesta su questo pianeta in maniera tangibile.

Si percepisce in effetti una sorta di vibrazione spirituale qui. Per un occidentale, i sintomi più evidenti risiedono nell’approccio attento all’ambiente degli abitanti, una sorta di equilibrio, che si riflette nel modo in cui vivono e, soprattutto, mangiano. Il cibo spazzatura qui è quasi del tutto assente. Frutta e verdura crescono deliziose su questo scuro suolo vulcanico. A ogni morso la sensazione di riempirsi lo stomaco di salute, di rinnovare il patto con la vita autentica, col proprio essere forme di vita prima che costrutti identitari all’interno di società complesse.
Col sole che finalmente si staglia solitario nel cielo ci godiamo la bellezza tropicale da cartolina, crogiolandoci su spiagge spopolate lambite da cristallo multicolore. La sensazione che l’indolenza sia una benedizione e, forse, l’unica forma di venerazione sensata per la placida bellezza dell’isola.
Capita di puntare sulla mappa una meta e di scoprire che anche Google si sbaglia, che non può dominare l’imprevedibilità asiatica. Così, convinti di raggiungere Paliton Beach, una strada interrotta da cartelli che rivendicano la proprietà sul terreno fa terminare la nostra alla spiaggia che la precede. Qualche baracchino raffazzonato e precario, musica dagli speaker gracchianti, un’isoletta che spezza il piattume dell’orizzonte marittimo. La mezzaluna di sabbia ospita una commistione di turisti e filippini. Il sole inizia a precipitare verso la superficie appena increspata dell’acqua tra i giochi chiassosi di nugoli di bambini. Prendiamo un Cuba Libre e una birra prima di abbandonarci al primo vero tramonto filippino. Tutt’attorno fanno lo stesso, come se la sacralità del momento richiedesse la sospensione di ogni altra attività per immergersi nella contemplazione. Esseri umani riuniti qui da chissà dove, cani, uccelli, insetti. Tutti sembrano partecipare come se si compisse una perfetta sincronia di esistenze attraverso cui l’universo si rinnova.

Fuori dalla grotta in cui cuciniamo la risacca a erodere la scogliera e il cielo trapuntato di stelle. Forse a chi basta alzare gli occhi nella notte per vederne così tante risulta spontaneo rammentare la propria umana piccolezza e la meraviglia che la natura offre. L’inquinamento luminoso non nega solo bellezza, ma anche la saggezza che ne deriva.
Mentre ceniamo udiamo flebili i richiami dei pescatori emergere dall’oscurità. Un grosso ragno cacciatore – le zampe di una decina di centimetri – controlla immobile che finiamo di mangiare. Al nostro ritorno nella casetta di pietra due gechi Tokay di una trentina di centimetri battono la superficie curva alla ricerca di prede. I manghi sono qualcosa di così delizioso da convincermi che non riuscirò mai più a mangiare frutta tropicale lontano da dove cresce.
16 gennaio 2023 | Siquijor
La notte ha piovuto ma al mattino il cielo è sgombro. Dalla casa giungono involtini fritti di patata dolce e formaggio che vanno a aggiungersi alla frutta e al riso saltato avanzato dalla sera prima. Giusto per iniziare la giornata leggeri. A metà colazione sbuca un varano delle dimensioni di un gatto, rugosa pelle arcaica puntellata di giallo. Ci osserva qualche istante e svanisce tra le rocce frastagliate. Andy ci informa che è una presenza fissa quanto sfuggevole del suo giardino da una decina d’anni.

Perché non sancire la fine della colazione con un tuffo? Alice sceglie di testare l’ingegnosa carrucola casereccia, io opto per la scricchiolante scala in bambù. Con le pareti di roccia è impedire la vista sulla casa, la baia si distende nell’assenza di tracce umane lasciandoci la sensazione di essere su di un’isola deserta. Il mare luccica come se fosse percorso da un tenue crepitio. Mentre sguazziamo Andy si affaccia dalla scogliera per salutarci. Poi tenta di percorrere la slack line tesa tra gli scogli. Qualche passo traballante e precipita in acqua accanto a noi. Mi chiedo quante delle sue mattine qui siano iniziate così e perché non dovrebbero iniziare così quelle di chiunque.
Ci inoltriamo col motorino nella jungla. Insegne lungo la strada sponsorizzano un’iniziativa del governo per far ingrassare i vitelli. Quelli che scorgiamo lungo la strada ci sembrano sì magri, ma ben più sani e in un certo senso naturali di quelli imbottiti di ormoni e antibiotici che affollano i nostri allevamenti. Parcheggiamo il bolide lungo la strada e scendiamo una ripida scala di roccia e terra battuta. Come un colpo d’artiglio, l’acqua ha squarciato la foresta e come una carezza inesorabile ha scolpito le rocce creando pozze, cadute, rivoli. Le cascate Cambugahay sono una delle attrazioni dell’isola. Si nuota tra le pozze levigate, e si gioca lanciandosi in acqua da piattaforme sopraelevate su un albero. Ci si riscopre primati e infanti, entrambe cose che non ci si dovrebbe mai scordare di essere.
Nel pomeriggio ci fidiamo di alcuni blog online e, non senza aspettative, puntiamo a Paliton, quella che stando all’internet, dovrebbe essere la spiaggia più bella dell’isola. Come spesso accade, i blog (soprattutto quelli ben visibili) sono un’arma a doppio taglio. Appiattiscono e massificano luoghi già conosciuti, valutandoli in base a standard ben distanti da quelli di chi, come me, cerca il diverso, l’inaspettato, la meraviglia. Certi luoghi meritano riserbo, altri vanno custoditi come un segreto perché esisteranno solo finchè le masse non giungeranno a distruggerne la poesia per collezionare selfie.
Paliton è affollatissima di filippini immersi nel chiasso domenicale tra pantagrueliche mangiate, non trascurabili dosi di alcool, musica e sport da spiaggia. Nemmeno il tempo di stendere i teli sulla sabbia bianca che facciamo dietro front e torniamo nella stessa spiaggia di ieri. Un bagno per sfuggire al caldo prima di scioglierci in una bavosa pennichella tropicale. Succhiare un cocco per reidratarsi e attendere l’esplodere di un nuovo tramonto, immergendoci in una contemplazione collettiva.
Dopo quasi un mese di clima incerto (se non decisamente avverso) bastano due giornate di sole a farmi rinascere.
A Siquijor alle 22 chiude ogni attività, salvo qualche ristorante per turisti. La frenesia del giorno scema ma non per questo l’isola si trasforma in un deserto dei Tartari. Le persone ci sono, è solo il ritmo che cambia. Lungo i bordi delle strade, seduti sui marciapiedi, sui muretti, sui motorini. Nelle zone liminali dei coni d’ombra dei lampioni, o nell’oscurità da cui sbucano giovani volti rischiarati dagli schermi dei dispositivi. Seduti in capannelli sotto le tettoie di vetroresina e lamiera, chiacchierando animatamente o condividendo cibo. Qualcuno passeggia col cane, altri fumano. Moltissimi non fanno nulla. Esistono e basta. Null’altro.
Povere le società in cui si è convinti che ciò che si fa e si ha sia più importante che si è.

17 gennaio 2023 | Siquijor
Tempo di lasciare l’isola. In fondo, le Filippine ne offrono ben 7641. Salutiamo Andy e Juvy, ricarichiamo il meccanico destriero dei nostri scarsi averi e ripartiamo alla volta del porto di Larena. Sorpresa: il ferry è sold-out, riducendo a zero le nostre possibilità di andarcene da Siquijor oggi stesso. Abbandonato il motorino e ingaggiato un tuk-tuk puntiamo al porto di Siquijor, sperando di raccattare un baio di posti sulla fastboat che parte alle 8 del mattino. La biglietteria è chiusa e non ci resta che tenerci il dubbio. L’isola non sembra volerci lasciar andare.
Ci serve un posto per dormire, ma quando tentiamo di raggiungerne uno segnalato su Booking scopriamo che non esiste. Il sole è da poco tramontato quando il triciclo ci scarica davanti al Raimbrow Resort. Una sorpresa inaspettata: Struttura molto curata, in legno e dagli ampi soffitti. Camera super accessoriata - ventilatore, condizionatore, tivù, bollitore, caffè, armadi e bagno privato - per 17€. Ceniamo direttamente qui, dove per 550p mi spazzolo una porzione di pancit guisado abbondante, una corn soup e metà della porzione di noodles di verdure di Alice. Ho anche un’intera sala sul ballatoio per lavorare al computer in pace. Nel caldo della notte tropicale ringrazio Siquijor per questo ennesimo dono.
Una definizione di esistenza? Esercita il caos e stai a vedere cosa offre.